Giovanni Santone, un Carneade che trentasette anni fa era diventato un simbolo: una celebre (allora) fotografia ritrae l’agente Santone, pistola in mano, maglione bianco attraversato da una vistosa striscia nera, borsa di Tolfa a tracolla, mentre su indicazione di una persona in borghese, ma di tutta evidenza poliziotto, corre in direzione del fotografo; alle spalle un altro poliziotto, in tenuta antisommossa. È il 12 maggio 1977, giornata terribile: si doveva festeggiare la vittoria del referendum sul divorzio, finisce in guerriglia e sul terreno alla fine una ragazza, Giorgiana Masi, centrata da un colpo di pistola, all’altezza del ponte Garibaldi. Uccisa nel tardo pomeriggio, ma disordini e tafferugli erano scoppiati da ore.
I radicali avevano dato appuntamento alla popolazione per un concerto a piazza Navona: si voleva far festa, e raccogliere le firme per una raffica di referendum abrogativi di leggi autoritarie e criminogene. Dal Viminale (il ministro dell’Interno è Francesco Cossiga) viene un perentorio divieto, assurdo, immotivato. Non c’è alcuna minaccia all’ordine pubblico, i poliziotti per primi sanno che quando a manifestare sono i radicali si può star tranquilli, al massimo resistenza passiva: ci rimettono sopratutto i vestiti dei manifestanti che vengono trascinati al “cellulare” e condotti al vicino Primo Distretto. Quel pomeriggio no: tutto il centro di Roma è blindato, poliziotti e carabinieri in assetto di guerra, inaccessibile piazza Navona, i primi manifestanti brutalmente fermati e picchiati per un nonnulla. Alle 16, all’altezza del Senato, un energumeno in borghese senza qualificarsi e dire una parola, mi dà un paio di cazzotti all’altezza dello stomaco, pugni degni di Mike Tyson. È spontaneo gridare: “Bastardo!” che tale è stato. Lui e un altro paio di individui mi afferrano per le braccia e mi ritrovo dentro un cellulare, condotto al primo distretto, arrestato per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Processo per direttissima quattro giorni dopo, trascorsi in una lurida cella d’isolamento del carcere di Regina Coeli assieme ad altri cinque.
Dalle 15 fino a sera il centro di Roma viene sconvolto da una vera e propria guerriglia. Solo che per stare sicuri, qualcuno del potere ha predisposto non solo gli “antiguerriglieri”, ma anche i “guerriglieri”. Perché quel giorno gli Autonomi si comportano da radicali nonviolenti, al massimo qualcuno, e dopo ore di provocazioni, comincia a lanciare qualche sanpietrino. Ma a sparare sono agenti di polizia o carabinieri travestiti da Autonomi: agenti travestiti da lupi che qualcuno voleva fossero lupi, denuncia Marco Pannella; non è una presunzione, piuttosto una certezza: grazie a un filmato e decine di testimonianze poi raccolte in un libro bianco curato e pubblicato dal Partito Radicale, è possibile provare che poliziotti infiltrati andavano a prendere ordini e forse a rifornirsi di proiettili in mezzo a riconoscibili funzionari.
Fu una giornata interminabile di violenza e sopruso. Qualcuno del potere aveva programmato una strage che per fortuna non ci fu. Ma Giorgiana Masi viene comunque uccisa e nonostante denunce, inchieste, processi non si è riusciti a dare un nome a chi sparò, quel pomeriggio, ad altezza d’uomo, per uccidere. E neppure i mandanti: chi volle quei lupi travestiti da lupi. Anni dopo Cossiga, che aveva sempre puntato il dito contro i settori di Autonomia, ammise di essere stato ingannato. Da chi, come e perché sarebbe stato ingannato, è uno dei tanti misteri italiani. E trentasette anni dopo, almeno noi che quel giorno c’eravamo siamo ancora qui, a farci le stesse domande, a cercare risposte agli stessi interrogativi di allora